L'intervista

«Il cinema svizzero è capace di anticipare persino l'attualità»

Si aprono mercoledì prossimo le 59. Giornate cinematografiche di Soletta – Per il secondo anno, il ruolo di direttore artistico della vetrina del cinema svizzero è appannaggio del ticinese Niccolò Castelli
Un frame di «Le paradis de Diane».
Antonio Mariotti
13.01.2024 06:00

Si aprono mercoledì prossimo, con la proiezione del lungometraggio Les paradis de Diane di Carmen Jaquier e Jan Gassmann, le 59. Giornate cinematografiche di Soletta. Per il secondo anno, il ruolo di direttore artistico della vetrina del cinema svizzero è appannaggio del ticinese Niccolò Castelli. Lo abbiamo intervistato.

Scorrendo il programma del festival, non si può non notare la peculiarità della produzione nazionale rispetto a quella di altri Paesi. Qual è, secondo lei, l’aspetto che fa la differenza?
«Ciò che mi ha sorpreso quest’anno ancora di più che nel 2023 è la sorprendente constatazione di come il cinema svizzero riesca ad anticipare i tempi della società. Ci sono sempre alcune pellicole che, pur essendo state concepite tre o quattro anni fa, arrivano adesso al pubblico e ti chiedi: ma come fanno ad arrivare adesso? Il caso classico dell’anno scorso era il film che parlava della situazione in Bielorussia e in Ucraina e la guerra in quella regione era appena scoppiata. Quest’anno posso citare il documentario sul dirottamento di un aereo della Swissair negli anni 70 da parte di un gruppo terroristico palestinese e anche quello sul giovane locarnese Bruno Breguet diretto da Olmo Cerri che parla del conflitto israelo-palestinese, ma anche Autour du feu di cui sono protagonisti persone che in passato hanno lottato per il diritto alla libertà andando anche al di là di quel che era lecito. È molto interessante vedere questi film con gli occhi dell’attualità: oggi c’è gente che si incolla sulle strade in segno di protesta e ti chiedi fino a che punto l’urgenza permette di andare al di là della legalità. Senza parlare del conflitto morale: fino a dove ci si può spingere per lottare contro il terrorismo, pensando a quel che sta succedendo nella striscia di Gaza. Su un altro versante, anche il film d’apertura del festival è molto interessante: siamo in un mondo dove cerchiamo di semplificare tutte le complessità dando delle risposte molto facili e siamo confrontati con una storia come quella di Les paradis de Diane di cui è protagonista una giovane donna che neanche vuole prendere in braccio la figlia appena nata e decide invece di scappare dall’ospedale ponendoci delle domande fondamentali riguardo alla figura del femminile oggi e a quella della famiglia. È un discorso molto interessante che nell’ambito del cinema svizzero può prendere tante forme: dalla commedia che si chiede cosa sia la coesione nazionale proponendo di usare una sola lingua (Bonjour Ticino, ndr) al film di genere che descrive la fine di un certo tipo di mondo rurale nelle fattorie del Giura (Bisons di Pierre Monnard, ndr)».

C’è stato un periodo in cui il cinema svizzero si era un po’ distanziato dal mondo ma poi si è capito che ciò non gli ha fatto bene

Quello svizzero non è quindi un cinema che vive in un mondo a parte?
«Direi proprio di no, perlomeno non negli ultimi anni, anche se c’è stato un periodo in cui il cinema svizzero si era un po’ distanziato dal mondo ma poi si è capito che ciò non gli ha fatto bene».

Una riflessione sull’attualità che non rischia però di voler dare una lezione allo spettatore?
«No, non mi pare che ci sia la pretesa di mettersi in cattedra. Per esempio, quest’anno si vedrà un film realizzato da una ragazza di 20 anni (Sab’ di Julie Wolf, ndr) che parla dell’anno sabbatico che, alla fine degli studi liceali, scelgono di vivere molti suoi coetanei. Uno sguardo dall’interno sul disorientamento che caratterizza molti giovani di oggi, che fanno fatica a capire cosa faranno del proprio futuro. È sorprendente che una ventenne scelga di fare un film su questo tema dimostrando una grande maturità».

Oggi come oggi si può dire che tutto il cinema svizzero stia bene, quello romando e quello ticinese, quello giovane e quello delle generazioni più mature?
«Un problema che ho notato è il distanziamento sempre più ampio tra le piccole e le grandi produzioni. Chi fa i film con tanti soldi ne ha sempre di più a disposizione, grazie ad esempio alle coproduzioni internazionali, mentre chi fa con poco deve fare sempre con meno e soffre. È una situazione di disequilibrio che nasce anche dalla produzione di serie per i portali di streaming che portano più soldi ma quasi sempre per gli stessi. È vero che oggi si può portare a casa un film anche con pochi mezzi grazie ai vantaggi della tecnologia digitale che permette di raggiungere criteri estetici e formali molto alti. Nel documentario però si nota spesso che gli autori avrebbero avuto bisogno di più mezzi per arrivare in fondo al proprio discorso. Il pericolo secondo me è che il cinema a grande budget diventi molto uniformato: si segue una sola formula che funziona, rischiando così di creare due mondi separati senza scambi tra loro. E non è quindi un caso che a Soletta cerchiamo di dare visibilità anche a persone che vengono da un mondo un po’ più underground, di nicchia ma accessibile anche al grande pubblico».

A Soletta cerchiamo di dare visibilità anche a persone che vengono da un mondo un po’ più underground, di nicchia ma accessibile anche al grande pubblico

Ma il cinema «povero» non è spesso più libero?
«Sì, è vero, soprattutto oggi. Se faccio un paragone con il mio primo film, Tutti giù (2012, ndr), devo dire che avevo un po’ più mezzi a disposizione rispetto a chi gira un primo lungometraggio oggi, ma ero anche più sotto controllo perché avevo una televisione che voleva fosse un film da prime time e un distributore che puntava anche sul pubblico svizzero tedesco e quindi ho dovuto accettare molti compromessi. Oggi il tuo primo film lo giri con meno, è più povero, fai più fatica a campare però non c’è nessuno che ti dice cosa devi fare. Quindi meno compromessi e magari un film più bello. Questo naturalmente se si vuole trovare un aspetto positivo in questo meccanismo che ha di fatto cancellato i film a medio budget».

Da qui anche l’ampliamento della vostra sezione «Visioni» ai secondi e in certi casi ai terzi lungometraggi?
«Sì, perché limitare questo concorso alle opere prime rischiava di farlo assomigliare a un Talent Show dove si premia l’esordiente, gli si dà una pacca sulla spalla e arrivederci. Oggi invece girare un secondo film è molto più difficile che girare il primo per tutta una serie di fattori contingenti. Non frequenti più una scuola e non puoi più vivere con poco, magari hai già una famiglia e rischi che passino dieci anni prima di farcela. Abbiamo quindi deciso di sostenere la continuità e speriamo così di individuare le nuove firme del cinema svizzero».

Niccolò Castelli. © CdT/Gabriele Putzu
Niccolò Castelli. © CdT/Gabriele Putzu

La presenza ticinese

È come sempre variegata e numerosa la presenza delle produzioni ticinesi al festival solettese. Una panoramica completa la si trova sul sito della Ticino Film Commission, qui alcuni dei titoli in cartellone. In prima mondiale e in competizione per il Premio Visioni ci sarà il documentario La scomparsa di Bruno Breguet di Olmo Cerri. Altri documentari: Elsa Barberis di Claudia Quadri, Flavio Paolucci. Da Guelmim a Biasca di Villi Hermann e Anxiety di Sławomir Fabicki (coproduzione internazionale con la ticinese Cinédokké e RSI). Cerebrum di Sébastien Blanc è invece un film di genere horror realizzato e prodotto da ticinesi attivi a Londra. Sempre in ambito fiction ci sarà il lungometraggio Deer Girl di Francesco Jost, mentre tra i diversi corti segnaliamo Dentro la luce di Vanja Victor Kabir Tognola e Jan-David Bolt.
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