Ripartire dalle piazze

Ha percorso tutte le valli del Locarnese, si è fermato in tutti i nuclei, ha parlato con tutti gli attori in campo, ha condotto un sondaggio tra centinaia di abitanti, ha analizzato tutti i dati disponibili. Edoardo Slerca, ricercatore alla SUPSI e data scientist per il Gruppo Multi, è l’autore del «Progetto di politica demografica e degli alloggi per le regioni periferiche», un corposo rapporto che approfondisce la situazione delle valli e presenta 10 possibili soluzioni per il loro rilancio.
Signor Slerca, nel vostro rapporto evidenziate che l’attività edilizia in alta valle si è praticamente fermata dagli anni ‘80 del secolo scorso. È una causa o un effetto dello spopolamento?
«In una fase iniziale è stato un effetto dello spopolamento. Ma oggi, in molte aree, è anche una causa, nel senso che ci sono difficoltà oggettive a trovare edifici nuovi o da riattare. E anche quando si trovano edifici da riattare, ci si scontra con costi di ristrutturazione molto elevati e vincoli comunali o storici che rendono molto difficile un adeguamento agli standard attuali».
Sta dicendo che le leggi per la protezione del paesaggio sono «nemiche» delle valli?
«No, non direi questo. Però è chiaro che ci sono certi fabbricati, specialmente nei nuclei, che non sono facili da ristrutturare. A volte può capitare che ci sia la necessità di unire due o più edifici per ricavare un’unità abitativa coerente con le necessità di una famiglia. Ma spesso ci sono dei vincoli sulle possibilità di fare delle modifiche a questi rustici. Sono limitazioni che chiaramente riducono molto l’appetibilità di queste aree in termini edilizi».
Come mai nelle valli il tasso di sfitto è così basso, nonostante lo spopolamento?
«Il tasso di sfitto non rispecchia sempre la situazione reale. Questo perché viene rilevato sostanzialmente con un sondaggio in cui i proprietari devono auto dichiarare di avere delle abitazioni vuote. Quindi è soggetto, in primo luogo, alla buona volontà dei proprietari. Inoltre i singoli proprietari sono disincentivati a dichiarare le abitazioni vuote, perché questo farebbe salire lo sfitto e di conseguenza calare i potenziali prezzi di vendita o affitto».
È un dato falsato?
«In generale è abbastanza impreciso ma in un territorio come le valli ancora di più. Specialmente perché ci sono abitazioni vuote che non vengono utilizzate ma i proprietari non dichiarano che sono vuote. Sono quasi abbandonate».
Questo rende ancora più difficile trovare una casa in valle.
«Esatto. Se lei guarda sui portali immobiliari, gli annunci di abitazioni nelle valli sono pochissimi. Per questo noi suggeriamo di creare un portale integrato che raggruppi tutti gli annunci immobiliari delle valli, in modo da facilitare la ricerca. Per andare a vivere in valle bisogna già superare delle difficoltà oggettive, dover anche far fatica a trovare a casa è un ulteriore disincentivo al trasferimento».


Tra le «difficoltà oggettive», quella più citata nel sondaggio riguarda i trasporti. Il potenziamento dei mezzi pubblici non è stato sufficiente?
«Per quanto riguarda il pendolarismo, c’è un deflusso dalle valli la mattina e un rientro la sera. Quindi mantenere un trasporto pubblico che abbia un’elevata frequenza tutto il giorno diventa difficile ed economicamente poco sostenibile. Per questo riteniamo che vadano sviluppati anche dei trasporti alternativi».
Cosa intende per «trasporti alternativi»?
«Nelle Centovalli c’è un sistema di ‘panchine condivise’ sparse lungo le strade che fungono da punto di ritrovo, in altre aree montane è stato sviluppato un servizio su chiamata con veicoli più piccoli. Si sta cercando di passare da un sistema strutturato con orari fissi ad uno più flessibile e rispondente alle necessità del territorio».
Uno smantellamento del trasporto pubblico, in pratica.
«No. Però è evidente che sul fronte del trasporto pubblico c’è un tetto massimo che può essere raggiunto. Inoltre la viabilità risulta difficile in molte aree vallive. Spesso le distanze sono ridotte in termini di chilometri ma la viabilità è lenta e difficoltosa».
Intende dire che bisognerebbe allargare le strade?
«Ci sono tante cose che si possono fare. Allargare le strade in certi punti è una di queste. Ci sono punti dove per incrociare con un altro veicolo uno dei due deve fare 300 metri in retromarcia. Chiaramente non è una situazione ideale. Poi ci sono i ponti, che spesso sono a carreggiata unica e hanno una curva ad angolo retto in ingresso o uscita. Sono stati costruiti così per motivi storici ma di sicuro oggi non facilitano la viabilità».
Il suo rapporto suggerisce di sviluppare anche i collegamenti intervallivi. La funivia tra Lavizzara e Leventina può essere ritenuta tale?
«Questo è un progetto ambizioso che darà sicuramente un forte impulso al turismo. Su questo non c’è dubbio. Per quanto riguarda la demografia, è invece più difficile immaginare un forte impatto».
Per rilanciare la demografia della Lavizzara sarebbe stata più efficace una strada?
«La funivia ha sicuramente una sua logica in quanto sarà all’avanguardia e scenografica. Ma se dobbiamo pensare a un impatto più importante sulla demografia e sul traffico non solo turistico, un collegamento stradale aumenterebbe maggiormente i transiti».
Il suo rapporto cita anche gli incentivi per le famiglie. Ma finora chi li ha introdotti - Cevio o Lavizzara - non ha ottenuto grandi risultati.
«I contributi vanno pensati in senso lato. Quando noi parliamo di contributi non ci riferiamo a delle somme una tantum che vengono offerte alle famiglie che si trasferiscono in un comune, bensì ad aiuti che potremmo definire in natura. Per esempio, un servizio di scuolabus che abbia degli orari compatibili con le necessità lavorative dei genitori. O tutti quei servizi di contorno che permettono di affrontare le difficoltà della vita in valle».


Citava la scuola. Immagino che il suo mantenimento in valle sia essenziale.
«È essenziale però bisogna rendersi conto che ci sono delle difficoltà oggettive e che i piani cantonali non vanno in questa direzione. Quindi è importante cercare di mantenere gli istituti scolastici di valle e al contempo cercare di creare le condizioni che permettano di vivere in una regione periferica senza che questo impatti troppo sulla vita scolastica e lavorativa».
Voi suggerite di prendere le case comunali in disuso e trasformarle in spazi di co-living e co-working. Ma chi ci andrebbe?
«Questa è una misura che va considerata all’interno di un sistema. Ci si poneva il problema di identificare gli edifici disponibili all’interno delle valli, perché come dicevamo prima ci sono tanti edifici vuoti ma è spesso difficile risalire al proprietario e ristrutturarli. Quindi se un Comune vuole intervenire in tempi brevi, deve intervenire su qualcosa che sia nelle sue disponibilità. Le vecchie case comunali sono esattamente questo».
Ma una volta trasformate, a chi servirebbero?
«Gli spazi di co-living sono pensati per sostenere il trasferimento iniziale in valle. Nel corso dello studio è emerso che ci sono persone che vorrebbero trasferirsi in valle ma sono un po’ spaventate dalle potenziali difficoltà a inserirsi nel territorio. Le comunità sono percepite come molto legate al loro interno ma non necessariamente così aperte verso l’esterno. È chiaro che avere la possibilità di trasferirsi in uno spazio dove si vive con altre persone permette di creare un insieme di relazioni che mitigano questo impatto iniziale».
Una sorta di punto di approdo.
«Sì, noi abbiamo legato questa misura al suggerimento di creare degli accordi con gli Uffici regionali di collocamento (URC). Quando ci sono posti di lavoro disponibili in valle, si potrebbe proporli ai giovani iscritti agli URC insieme alla possibilità di trasferirsi negli spazi di co-living. Dal nostro punto di vista, questo creerebbe delle condizioni più favorevoli all’accettazione di un lavoro in valle».
Esistono difficoltà di reclutamento anche in valle?
«Esistono un po’ ovunque. Nelle valli c’è anche il tema del mantenimento di determinate professionalità, perché purtroppo accade spesso che quando un artigiano va in pensione nessuno ne riprenda l’attività. Così viene perso non solo quel posto di lavoro ma anche un servizio per la comunità. Per questo bisogna cercare di creare una continuità, per mantenere viva la valle non solo in termini di posti di lavoro ma anche di servizi».
Non è scontato che un giovane di città accetti di riprendere un’attività in valle.
«È vero. Ma prendiamo l’esempio banale di un falegname del Luganese che cerca lavoro nella sua regione e non ne trova. Se l’URC gli proponesse di andare a lavorare in valle e inserirsi in un co-living, lui potrebbe partecipare al programma e magari rendersi conto che gli piace vivere in quel territorio».


E il co-working, invece, a chi si rivolge?
«Nelle aree periferiche non è raro che ci siano problemi di connessione internet. Gli spazi di co-working permettono di concentrare gli sforzi per una connessione performante in pochi luoghi e quindi lavorare da remoto restando nella propria valle».
Se le case comunali sono in disuso, significa che c’è stata un’aggregazione. Ecco, nelle valli le fusioni sono un fattore positivo o negativo?
«Sono sicuramente un fattore positivo. Per quanto riguarda il nostro studio, l’aspetto più positivo è proprio la partecipazione di tutti gli attori sul territorio. C’è una presa di coscienza della necessità di fare sistema, di crescere e fare massa critica tutti insieme, perché da soli risulta oggettivamente difficile implementare interventi che possano incidere sul territorio. Le aggregazioni vanno in questa direzione, permettono di ampliare lo sguardo».
Lei che ha analizzato da vicino la situazione, crede che sia possibile invertire la tendenza demografica nelle valli?
«Io penso che ci sia una buona consapevolezza di quali sono le problematiche e quali sono i rischi se non si interviene. È chiaro che pensare a un’inversione di tendenza netta di uno spopolamento che va avanti da decenni è abbastanza utopistico, a maggior ragione in un contesto di invecchiamento della popolazione che non coinvolge solo le valli ma l’intera Europa. Ci sono valli che hanno perso il 15% della popolazione in un decennio, semplicemente perché avevano una quota elevata di anziani e queste persone sono decedute».
Non sono prospettive entusiasmanti.
«È chiaro che in un contesto di natalità molto bassa, vedere un’inversione di tendenza è difficile. Però si può cercare di fermare questa emorragia e soprattutto creare le condizioni affinché questi territori tornino a essere appetibili. Lo si fa cercando di fornire i servizi, offrire i trasporti, fare sistema in termini di soluzioni innovative. Faccio un esempio banale. È chiaro che è difficile mantenere un negozio di alimentari in alta valle, perché non c’è un afflusso costante di clientela. Ma la tecnologia consente di pensare a soluzioni alternative. Già in alcune valli sono stati implementati dei distributori automatici che consentono di rifornirsi di beni di prima necessità senza dover prendere la macchina e scendere al supermercato in bassa valle. Sono piccole cose che però fanno una grande differenza in termini di qualità della vita».
Lei vive in valle?
«No, non vivo in valle».
Durante il suo peregrinare per le valli, non le è capitato di sognare di andarci a vivere?
«Purtroppo nella scelta del luogo in cui vivere a volte intervengono vincoli familiari o lavorativi. Però ci sono tanti nuclei bellissimi che hanno grandi potenzialità, sia in termini residenziali, sia turistici. Un aspetto che forse non abbiamo evidenziato ma che è emerso nelle interviste è che si è talvolta sottovalutata l’importanza degli spazi di aggregazione. Fornire un arredo urbano adeguato, si pensi per esempio alle panchine nelle piazze, è un piccolo dettaglio che può fare una grande differenza».